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Miracoli operati nel casale di S. Michele di S. Martino da S. Filippo Neri

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Alla fine del 1640 vennero portate nella chiesa di S. Michele le reliquie di S. Filippo Neri, dei Santi Restituto, Valentino, Vincenzo e Vittorino, <>. Il culto di S. Filippo Neri si diffuse rapidamente nella nei fedeli di Montecorvino. La devozione verso il Santo é testimoniato da alcuni miracoli avvenuti in loco e attestati da scritture notarili. Tutto ciò fu determinato anche dall’opera indefessa svolta dal parroco D. Diego Tasso, il quale oltre ad essere un pio devoto del santo fiorentino, si dimostrò un profondo conoscitore della sua vita e dei suoi miracoli.
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“Si fa piene et indubitata fede per me sotto Notare che Martino Rodoero della terra di Montecorvino, a che la presente spetterà vedere, o sarà in qual modo presentata in giudizio, con giuramento, come nel mese di marzo 1641, sopraggiunge un morbo epilettico a Giuseppe, età anni due in circa, con tanta violenza, che quantunque s’adoprasse ogni aiuto umano con medici, medicine et antidoti sia poco tempo disperato di salute, atteso sia una notte, et un giorno solo, detto morbo li sopraggiunse trenta volte in circa, lasciandolo ogni volta quasi morto, che appena palpitava, et essendo giunto a segno tale, che molte ore no poteva succhiare né zizza, ne rinfocilarsi con ogni altro cibo, alla fine conoscendo con mia moglie, che non bisognava avere in tal cosa confidenza et aiuto, o rimedio alcuno, deliberarono d’andare divotamente a dimandarlo in grazia al glorioso San Filippo Neri, la cui reliquia si conserva nella nostra parrocchiale Chiesa di San Michele Arcangiolo, siccome essendovi andata detta mia moglie, lacrimando buttò il figliolo semivivo sopra l’altare di detto Santo glorioso, dimandandolo in dono, conforme in effetto subito rinvenne in se, et nell’istesso luogo pigliò la zizza, quale per molto tempo havea rifiutata, reportato a casa e prendendo maggior confidenza dell’aiuto del Santo, mandammo a chiamare il Rev
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Don Diego Tasso, Cappellano di detta Chiesa e Rettore di detta Cappella, acciò con la sua presenza ci consolasse, et con sue orazioni intercedesse per la Grazia, il quale subito venne e raccontatoli il tutto, prese una particella della Pezza del rettorio di San Filippo, et attufata in poco d’acqua, con dire l’orazione ordinaria del Santo, la diede a bere al figliolo, et da allora in poi cessò totalmente il morbo et fra pochissimo tempo l’ammalato fu guarito. Non lasciando da dire che il caso era tanto disperato che io povero padre, amante tenerissimo d’unico figliolo, per no ritrovarmi nel tempo di sua morte, andai a dormire in casa di detto Rev. Don Diego Tasso, acciò con di lui discorsi spirituali alleviasse il dolore, et quando la mattina aspettavo la sepoltura, mi venne di Grazia.
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Et per essere il tutto la verità, et acciò in tanto miracolo non venghi occupato dal tempo, ad onore et gloria di detto Santo miracoloso ho scritto la presente di mia propria mano, in Montecorvino, il dì primo aprile 1641.
Io Martino Rodoero V.J.D. fo fede come sopra.
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Io Don Diego Tasso, Cappellano, come sopra faccio fede, come requisitio dal detto Dott. Martino e sua moglie che diede a bere al detto figliolo un poco d’acqua bagnata con una particella di Pezza del rettorio del detto Santo che avevo in mio potere, e per li meriti di detto Santo ne seguì subito la salute, come sopra il caso tanto disperato che detto Dott. Martino volse la sera venire a dormire meco per non ritrovarsi a tempo spirava detto figliolo, e la mattina di buonora andandomi insieme per strada incontrantomi con Filippo di Recco, quale domandato se il figliolo era spirato, rispose allegramente che era sano e che dopo havea bevuta l’acqua di San Filippo non li havea più pigliato il morbo, e detto Filippo (di Recco) lo sapeva per essere stato la stessa notte, con altre persone in casa del detto Dott. Martino per detta causa che si aspettava la morte del figliolo, per consolare la madre, e per essere la verità, scrissi di mia propria mano, die e anno come sopra.
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Don Diego Tasso di mano propria. Faccio fede il notaio Federico Bello di Montecorvino presente e retroscrivente, scrisse di propria mano i sopradetti Giovanni Martino Rodoero e il Rev. Don Diego Tasso.
Si Fa fede piena ed indubitata co giuramento, a che la presente spetterà vedere come sarà presentata à dì 25 giugno 1642 a che tempo che si faceva la volta del coro della Parrocchiale Chiesa di San Michele havendo li fabbricatori posti li legnami e ritrovandomi io Zinobio Oliviero nella mia finestra, si spezzaro tutti li legnami e cascò la forma con il fabbricatore, e vedendo l’evidente pericolo di morte, con lacrime gridai: << Santo Filippo aiutolo che tocca a te aiutare>>, giudicando ritrovarsi morto il detto fabbricatore cascato, per grazia del Signore lo ritrovammo sano ed illeso senza lusura alcuna, et essendo questa la verità, et a gloria et honore di Dio e del Santo suo, e ne ho fatto scrivere la presente per mano di Don Diego Tasso, firmato di mia propria mano, in Montecorvino lì 20 marzo 1643.
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Io Zinobio Oliviero confermo quanto di sopra.
Io Notaio Federico Bello confermo quanto di sopra.
Io sottoscritto Zinobio Oliviero firmo di propria mano.

In fede signavi ad hoc con signum Notari.

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Si fa piena ed indubitata fede estratta co giuramento a che spetterà vedere e sarà in qualche modo presentata, per me Francesco Sparano del casale di San Martino, della terra di Montecorvino, qualmente nel mese di giugno 1642, avendo una morra di porci infetta, che ne morivano due o tre al giorno, e stando attualmente due o tre ammalati, che uno stava per morire, mi voltai devotamente al glorioso San Filippo Neri, la reliquia del quale si conserva nella nostra Chiesa di Santo Michele, pregandolo che si degnasse implorarmi ed impertrarmi al Signore, per non farne più morire offrendogli un porco in voto ricevendo la grazia. Il giorno seguente o l’altro, venne da me il parroco e domandato che facevano li porci, mi rispose che non era morto alcuno più e che gli ammalati erano sanati tutti. Il che intendendo io Francesco Sparano baciai in terra, ringraziando il Santo della Grazia per mezzo suo ottenuta, ne di poi era morto alcuno più.
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Et essendo questa la verità a gloria et honore di Dio benedetto, e del Santo suo, ne ho fatto scrivere la presente per mano di Don Diego Tasso, con segno di croce di mia propria mano, in Montecorvino lì 10 agosto 1642.
Segno di croce di propria mano del sopradetto Francesco Sparano per non saper scrivere.
In fede io Nataro Federico Bello faccio fede con proprio segno.
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Si fa vera ed indubitata fede, con giuramento a che la presente spetterà vedere, per me Severino Tasso della terra di Montecorvino, qualmente l’anno passato nel mese di luglio, ritrovandomi a Napoli, dove attendea alla pratica di notaro, infermo di febbre continua di modo tale che in sei giorni in circa, non potei mangiare altro, che quattro onze di confetti in circa, et il mio medico mi teneva per morto, nel qual tempo più volte mi raccomandai al Glorioso Santo Filippo Neri et in particolare un venerdì ricordandomi che era il giorno nel quale si faceva la Congregazione in Montecorvino, mi voltai al detto glorioso Santo, pregandolo con molto affetto, acciò avesse interceduto per me appresso Iddio Onnipotente la Grazia di non farmi venire più la febbre.
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Con affetto l’istessa sera cominciai a migliorare , et a pigliare cibo, il sabato venne il medico e mi ritrovò senza febbre, et il stesso giorno mi alzai per la casa, e la domenica immediata seguente andai per Napoli, e per essere questa la verità a Gloria di Dio et honore del detto glorioso San Filippo Neri, mio particolare avvocato, et intercessore, ne ho scritto la presente di mia propria mano, et signata col mio solito sigillo, come Notaro Apostolico, in Montecorvino lì 4 gennaio 1644”.
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Archivio Parrocchiale di S. Michele e S. Filippo Neri, Manoscritto del canonico Carmine Antonio D’Alessio, Inventarium omnium bonorum iam mobili quam stabilium venerabilis Cappellae: Philippi Neri oppidi S. Martini Civitas Montiscorvini Acernem Diocesis, anno 1753.

A cura di Vito Cardine

Il feudo di ‘Fosso e Verdesca’: prime attestazioni e modalità di gestione*

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Nei protocolli del notaio giffonese Antonello De Dario, conservati nell’Archivio di Stato di Salerno, si possono leggere due atti relativi al feudo di ‘Fosso e Verdesca’ del 1488, uno del 29 marzo e l’altro del 26 luglio (1). Allo stato attuale delle ricerche essi rappresentano la prima attestazione dell’esistenza di questo importante feudo dello Stato di Montecorvino, la cui storia interesserà tutta l’età moderna fino alle leggi eversive del XIX secolo. Dividerò l’intervento in due fasi: prima cercherò di chiarire le vicende che hanno portato alla nascita del feudo; poi, con l’ausilio degli atti notarili sopra citati, ne analizzerò la gestione sul finire del XV secolo.
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Il territorio del feudo rientrava nella vasta area indicata nei documenti longobardi e normanni con il toponimo Lama, termine di origine classica che, nel nostro caso, significa ‘pantano’, ‘luogo paludoso’, ‘acquitrino’ (2). Tale doveva apparire, infatti, il territorio in questione, attraversato da fiumi e torrenti (come il Tusciano, il Vallemonio, lo stesso Lama ed altri) le cui acque, scarsamente o affatto irreggimentate, straripando nei periodi di piena allagavano i terreni circostanti, rendendoli malsani e poco atti alla coltivazione. Tuttavia, nell’inquadramento territoriale generale, la zona ha rappresentato fin dall’antichità un importante snodo viario e commerciale, interessato da numerose arterie che univano le aree costiere con l’interno appenninico, nonché il nord campano con la Lucania. Punto di passaggio obbligato, l’area fu oggetto di controllo fiscale e militare da parte del potere costituito: il toponimo Verdesca (3) indica la zona in cui sorgeva una postazione di avvistamento e, verosimilmente, il luogo in cui si pagava il pedaggio per il transito di uomini, animali e merci. Nel 1321 compare nella documentazione il toponimo Fosso (4), localizzato nella parte bassa della contrada Lama, alla confluenza del torrente Lama con il Tusciano. Il XIII secolo aveva visto il consolidarsi dei beni di grandi proprietari ecclesiastici, quali la badia della SS. Trinità di Cava de’ Tirreni, i monasteri salernitani di S. Benedetto e S. Giorgio, quello amalfitano di S. Lorenzo: i possedimenti maggiori appartenevano tuttavia all’arcivescovo di Salerno, feudatario dello Stato di Montecorvino.
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Tra la fine del ‘200 e l’inizio del secolo successivo, in un periodo di crescita demografica, l’arcivescovado (forse di comune accordo con gli altri enti ecclesiastici) probabilmente avviò un’opera di «bonifica» attraverso la realizzazione di canali e fossati (da cui il toponimo Fosso), al fine di ridurre il più possibile le zone paludose e aumentare la quantità di terreno coltivabile. In tale contesto, non lontano dall’antica postazione della ‘Berdesca’, l’arcivescovo favorì la nascita di un piccolo abitato (il casale ‘Fossi’), dove esercitava il diritto di piazza e di mercato sulle merci che entravano e uscivano dal feudo di Montecorvino (5). Nei decenni successivi, però, l’autorità del prelato fu probabilmente intaccata dall’emergere di classi sociali economicamente e politicamente influenti (6), tanto che nel 1370 fece redigere un documento con il quale ribadì i diritti che gli spettavano in quanto feudatario di Montecorvino. Nonostante ciò, nel turbinio delle lotte tra durazzeschi e angioini filo- francesi, il feudo di Montecorvino venne tolto alla Chiesa Salernitana (7). E’ plausibile supporre, quindi, che sul finire del secolo i territori del Fosso e della Verdesca furono “staccati” dallo Stato di Montecorvino, infeudati separatamente e concessi a Bertrando Sanseverino (8), capostipite del ramo dei Conti di Caiazzo. Tale ipotesi è suffragata dal fatto che nella documentazione quattrocentesca, tra i possedimenti salernitani dei Conti di Caiazzo, compare il territorio del ‘Fosso’, anche se non è possibile identificarne in modo preciso l’ubicazione territoriale. I documenti del 1488 che stiamo esaminando chiariscono, a mio parere, che il ‘Fosso’ in questione è proprio il feudo di “Fosso e Verdesca”, in quanto nelle scritture successive non compare nessun altro possedimento con questo nome. Nel 1530 il feudo fu venduto da Roberto Ambrogio Sanseverino D’Aragona a Michele Giovanni Comes (9) e da questi passò ai Denza di Montecorvino, che ritroviamo proprietari nel 1557 (10). Nel 1488, dunque, il feudo apparteneva al Conte di Caiazzo, Giovan Francesco Sanseverino D’Aragona: il 29 marzo Luigi D’Alessio di Giffoni, suo procuratore, lo affittò a Bernardo De Ligorio di Montecorvino. Tuttavia, l’atto stipulato il 26 luglio successivo ci informa che i conti di Caiazzo risultano proprietari del feudo anche nel 1484, in quanto lo stesso Luigi D’Alessio si ritrova debitore nei confronti del tesoriere del Conte per una parte dell’affitto relativamente all’anno indicato dalla ‘terza indizione’, che corrisponde appunto al periodo settembre 1484- agosto1485 [ … prefatus namque loysius … asseruit se teneri et debere dicto … erario certam pecunia ex resta … affittationis seu venditionis staley fossi verdesche annis tertia inditionis … ]. Il denaro, in realtà, doveva essere pagato dagli eredi del defunto Masello De Abello a Luigi D’Alessio, il quale cede il credito al tesoriere del conte [ … et dictus loysius debet habere ab heredes quondam masellj deabello … ] . Da ciò possiamo dedurre, quindi, che il D’Alessio gestiva il feudo di Fosso e Verdesca in veste di procuratore da diversi anni.
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La gestione del fondo appare alquanto articolata: il feudatario nominava un procuratore locale, il quale dava in fitto il territorio a terze persone, che a loro volta concedevano porzioni del feudo ad altrettanti affittuari che ne curavano la coltivazione. L’accordo stipulato il 29 marzo è un esempio di questo elaborato sistema di gestione. L’atto è redatto alla presenza del giudice Gabriele Cipparono e di alcuni testimoni, ossia il notaio Gabriele De Dario, Desiato Cesaro, Bernardino De Napoli, Domenico D’Alessio, tutti di Giffoni, e un tale Michele De Giovannino di Montecorvino. Il prezzo dell’affitto è stabilito in 23 moggi di frumento (11), in proporzione di 2/3 di grano e 1/3 di orzo [ … pro modiis viginti tres frumenti seu victualijs … hoc modo videlicet duas partes graniy et tertiam partem ordey ad iustam mensuram tuminis neapolitanis … ], oltre a quattro fosse granarie presenti nel feudo stesso, riempite di grano ed orzo (sempre con rapporto 2/3 ed 1/3) che rimangono a disposizione del feudatario [ … et quattro silo … et non se possa ad movere … ]. Bernardo, dal canto suo, ha il diritto di usufruire a suo piacimento del restante raccolto e di riscuotere la tassa del ‘terraticum’ secondo la consuetudine del luogo [ … cum pacto pro liceat dicto bernardo exigere terragium dicti feudi eo modo et forma prout solitum fuit exigere temporibus praeteritis … ]. I 23 moggi di frumento suddetti devono essere portati nella casa del D’Alessio a spese del De Ligorio entro il mese di agosto, con l’esenzione a favore dell’affittuario del pagamento della tassa sul trasporto [ … et consegnare in domo dicti Loysij ad expensas predictus bernardi pro totum mensem augusti proximus futuris cum pacto que dictus loysius teneatis eximere ad partem dictum bernardinus (sic) obligatione vectigaliis montiscorvini … ]. A questo punto nell’atto viene inserita una clausola che consente al De Ligorio di non pagare in tutto o in parte il prezzo dell’affitto nel caso si fossero verificati eventi imprevisti, quali inondazioni, incendi o devastazioni dovute a guerre [ … aqua igne et guerra … ], a patto che l’affittuario comunichi di voler usufruire dell’esenzione entro la fine del mese di giugno (12) [ … possit dictum staleum prevenire … pro totum mensis junij … ]. L’atto si chiude con le solite formule finali in cui le parti si impegnano a rispettare i patti assunti.
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I documenti, letti al di là dei nudi accordi presi tra i contraenti, offrono uno spaccato di vita quotidiana nella Montecorvino di fine Quattrocento: esponenti della ‘borghesia’ emergente e del vecchio patriziato rurale amministravano i beni patrimoniali di possidenti locali e non, investendo i propri capitali nell’affitto di terreni, mulini, gabelle ed altri diritti feudali; mentre poveri contadini coltivavano piccoli fondi di cui non erano proprietari, pagando dazi a volte esorbitanti per il pascolo, per la coltivazione, per la macinatura, ecc., che lasciavano loro appena il necessario per sopravvivere. Possiamo immaginare Luigi D’Alessio, procuratore del Conte di Caiazzo, capitano di ventura impegnato nelle sue battaglie al soldo di re, papi e imperatori, complottare in combutta con Bernardo De Ligorio e con il tesoriere del conte, stipulando contratti vantaggiosi per tutti, tranne che per il feudatario e i contadini che lavoravano le terre del feudo. Luigi D’Alessio nel 1488 riempiva i propri granai con ben 100 quintali tra grano e orzo, ma non sappiamo quanto ne restava al conte nelle quattro fosse scavate nella masseria; Bernardo De Ligorio riscuoteva il terratico da decine di piccoli affittuari, misurando sicuramente ‘al colmo’ (13) il grano e l’orzo da essi dovuti per la concessione, ma non sappiamo quanto ne avanzava per le loro esigenze familiari. Ai poveri contadini che sudavano nelle paludose e malariche terre della Piana rimanevano le briciole del duro lavoro, condannati ad una vita di stenti e fatica.
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Ricerche d’archivio a cura dell’Ing. Sabato D’Alessio.

Note:

  1. A. S. S., notaio A. De Dario, B. 2732.
  2. Cfr. “Du Cange, et al., Glossarium mediae et infimae latinitatis, éd. augm., Niort : L. Favre, 1883-1887, t. 5, col. 016b”. Nel latino classico il termine ‘lama’ indicava un luogo argilloso e voraginoso originato da solchi dovuti alle piogge. Paolo Diacono nel primo libro della sua “Historia Langobardorum” al cap. 15 sostiene che i longobardi traducevano con ‘lamam’ il termine latino piscina, ossia peschiera (per pesci), cisterna: per estensione quindi si definirono ‘lama’ tutte quelle zone in cui l’acqua ristagna: paludi, acquitrini, pantani, ecc.
  3. Cfr. “Du Cange”, op. cit., t. 1, col. 637b: “Berdesca, castellum ligneum ad munitionem castri et oppidi”. Berdesca deriva dal latino medievale brittisca, cioè «torre o fortificazione bretone, alla maniera dei Bretoni», cfr. “Dizionario Treccani on line”, sub voce. In età medievale indicò una torretta, costruita in legno o muratura, realizzata a piombo o sporgente rispetto a un muro di difesa, con principale funzione di guardia e avvistamento. Cfr. “Carbone G., Dizionario militare, Torino, 1863”, sub voce; “Dizionario di fortificazione”, sub voce, in “De Marchi F., Architettura medievale, Roma, 1810”.
  4. Cfr. “J. Mazzoleni, R.Orefice, Codice Perris – Cartulario Amalfitano (Sec. X-XV), vol. III, Centro di Cultura e Storia Amalfitano, Napoli, 1987, pp. 819-822”.
  5. Archivio Diocesano di Salerno (d’ora in avanti A. D. S.), Reg. Mensa, n. 33 (k 33), interamente trascritto in “L. Scarpiello, R. Vassallo, A. D’Arminio, C. Vasso, Toponomastica storica montecorvinese, Battipaglia, 2001, pp. 25-33.
  6. Cfr. “Amalia Galdi, Conflittualità, dinamiche sociali e potere regio nella Salerno angioina: momenti di una ricerca in progress, Mélanges de l’Ecole francaise de Rome – Moyen Age” [En ligne], 123- 1 | 2011, mise en ligne le 20 février 2013, consulté le 22 mars 2023. URL: http://journals.openedition.org/mefrm/680; DOI : https://doi.org/10.4000/mefrm.680.
  7. Cfr. “AA. VV., Toponomastica storica montecorvinese, op. cit., p. 35-36.
  8. OCfr. “Mattia Casiraghi, Roberto Sanseverino (1418-1487) Un grande condottiero del Quattrocento tra il Regno di Napoli e il Ducato di Milano, tesi di laurea, Università degli Studi di Milano, Facoltà di Studi Umanistici, A.A. 2016-2017”, in particolare le pp. 20-28.
  9. Cfr. “Lorenzo Giustiniani, Dizionario Geografico – Ragionato del Regno di Napoli, vol. I, Napoli, 1797, p. 92.
  10. A. S. S., Notaio N. Venturello, b. 3247, atto del 30 dicembre 1557.
  11. Considerando che il moggio, misura di capacità nominale, corrispondeva a dodici tomoli e che il ‘tomolo napoletano’, in seguito alla riforma fiscale di Ferdinando I del 6 aprile 1480, misurava circa 55 litri, i 23 moggi ammontavano a circa 72 quintali di grano e circa 31 di orzo.
  12. Secondo la forma tipica degli atti notarili dei secoli XV-XVI( per cui cfr. “Leone Spelungano, Artis notariae tempestatis, Venezia, 1574, pp. 48-50”) l’affitto ‘ad staleum’ prevedeva solitamente il pagamento con i frutti del raccolto e che l’affittuario si assumesse tutti i rischi per «incendium, omnemque casum fortuitum, sterilitates, eventum bellorum, seu guerrarum discrimina, avium impressionem, et omnem aliam ruinam». Nella prassi, però, visti gli ingenti quantitativi di merce corrispondenti al prezzo da pagare, per evitare le frequenti liti giudiziarie nel caso di inadempienza dell’affittuario dovuta a eventi imprevisti, si concedeva allo stesso la facoltà di poter usufruire di una deroga nel pagamento qualora si verificassero tali circostanze. In concreto l’affittuario comunicava entro un tempo stabilito l’impossibilità di pagare tutto o parte dell’affitto a causa di mancato o scarso raccolto, impegnandosi comunque a corrispondere il dovuto negli anni successivi quando la produzione sarebbe stata ‘normale’.
  13. Nel meridione d’Italia l’unità di misura per gli aridi era il tomolo, che variava nelle diverse province, ma spesso anche tra villaggi vicini. La riforma di Ferdinando I del 1480, come detto alla nota undici, ne fissò la capacità a circa 55 litri, anche se l’editto regio trovò scarsa applicazione nella realtà, tanto che nel 1840 Ferdinando II di Borbone emanò una nuova legge nel tentativo di unificare le unità di misure in tutto il Regno, prima della definitiva adozione del sistema metrico decimale con l’Unità d’ Italia. Alla promiscuità delle misure si aggiungevano i metodi fraudolenti praticati da mercanti, gabellieri, locatari, funzionari, ecc., nell’uso degli strumenti per la misurazione: il tomolo, ad esempio, veniva riempito fino all’orlo ( e si diceva ‘a raso’ ) nel caso si dovesse pagare, oppure superandolo fino a che non cadevano i chicchi ( e si diceva ‘al colmo’ ) nel caso invece si dovesse riscuotere …. A danno ovviamente della povera gente!!!